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lettera di riccardo. 103


menzogna, non mi sono mai rôso d’invidia; la mia mano non s’è stesa sullo altrui; alla fama del prossimo non recai offesa, e l’amore dell’umanità mi parve il più bello, dopo quello di Dio, o mi parve bello come il suo: per tutto il resto, lo dissi, fui uomo. Perchè spaventarci dell’avvenire?

— Il passato non esiste, il presente sta per finire: che resta? il frutto delle opere. Sono poche le mie, e potevano essere migliori; ma ho fede nella bontà di Lui, ch’è il tutto, che soffrì e operò per la umana famiglia: per questo mi avvolgo tranquillo nel lenzuolo della morte. Dio ha creato l’uomo per farlo felice!

Io gli giaceva seduto accanto alla proda del letto; pareano lontani da lui i segni precursori della dipartita finale.

Il viso smunto e bianco come lin di bucato, e vi si leggeva quella quiete e serenità, che non abbondano mai i forti spiriti nelle più difficili prove: gli spirava intiera dallo sguardo la sua bell’anima, come ne’ pochi momenti che passammo insieme fra i graditi conversari della più schietta amistà. Solo la voce cominciava a scemare e ad infrettersi rauca: tutta la vita si raccoglieva nel cuore, centro di tanta bontà ed affetti. — Povero Enrico!

Or, come descriverti la commozione di