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colonna di fumo denso, biancastro, che usciva lontano lontano da folto bosco a mezza piaggia, sulla nostra sinistra; era una carbonaia.

Ma tendendo l’orecchio e facendosi più che mai attenti, sembrava venisse da tutte parti un rumore incognito, indistinto; pareva ronzio d’insetti, sussurro lieve di vento tra fronda e fronda, murmure di rigagnoletto che cadesse sopra un ramoscello di foglie di castagno, e talvolta percoteva le orecchie come onda sonora di remota armonia trasportata a folate, o di grida di migliaia di combattenti di là dai monti. E, quanto più si stava in orecchi, tanto meno ci si poteva render ragione di quei rumori, che di giorno non si sarebbero potuti avvertire.

Erano le armonie misteriose della natura, le voci arcane della montagna, che destano nell’animo un sentimento non mai provato; sentimento che ha del timore e del piacere, della mestizia e della dolcezza ad un tempo. Ora il trovarsi in quelle solitudini, senza un comignolo di tetto o la punta di un campanile in vista, fa nascere nel cuore un non so che somigliante a paura e si cerca la via più breve per ritornare fra l’abitato; ora quella calma notturna dei boschi e dei monti ci alletta ed incanta e non si vorrebbe mai più vedere faccia d’uomo e, sto per dire, raggio di sole, tanto è piena di delizie quella solitudine alpestre, quella notte al lume di luna. Chi