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levante, un chiarore estendersi sempre più per i campi del cielo ritornato sereno.

La via, una via di montagna, subito fuori del paese è ripida e sassosa; ma poi, svoltato il fianco del monte, si fa, direi quasi, facile e piana internandosi nella valle e scendendo con lieve pendio sino all’Orsigna, torrentaccio grosso, largo, ciottoloso, che si affretta verso il Reno bolognese, poco lontano. S’immagini però come fosse diventata quella straducola del paese alla svoltata del monte in quelle tre ore di pioggia venuta giù a catinelle! Tutta la terra portata via, e lasciati scoperti i ciottoli grossi e fitti...

Si giunse al fiume: non v’era stilla d’acqua; il greto se l’era bevuta tutta come una spugna. Un ponticello l’attraversa, e noi ci ponemmo a sedere sulla spalletta.

Che spettacolo bellissimo, sorprendente si presentava ai nostri occhi! La natura in tutta quanta la sua maestà ci appariva in quelle forme fantastiche e strane di montagne, che intorno a noi levavansi al cielo colle loro ombre, coi loro burroni, colle frane biancheggianti. La luna, sorta allora allora sull’orizzonte, illuminava quella scena solenne. A destra i monti dell’Orsigna fino all’irta e nuda Portafranca, a sinistra i fianchi vestiti lussuriosamente del monte Grosso fino all’Uccelliera grande, maestosa, dalla cresta sublime, ornata di prati e di pascoli; nel mezzo l’Orsigna simile ad ampio stradone che salga nel più interno della valle fra due filari giganteschi di castagni. Non un grido, non un buffo di vento, non un rumore qualunque rompeva la quiete profonda;, nulla che ci facesse accorti come quelle solitudini fossero ricovero d’esseri umani, salvo una