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giorenti ed il clero, stringere mille mani, sorridere, interrogare, rispondere, mostrarsi lieto e soddisfattissimo di tanta festa, onoratissimo e beato di tante dimostrazioni.
Poi strinse al seno i parenti giovani e vecchi, salutò cordialmente i domestici, i coloni, i loro bambini, le balie e i conoscenti, e finalmente chiese la grazia di ritirarsi nella sua stanza, ove, chiuso l’uscio a doppio giro di chiave, cadde sul canapè, mandò un profondo sospiro, e senti il bisogno di stirarsi e di respirare in libertà, a pieni polmoni.
Poi chiuse gli occhi, e cercò di dormire; ma l’eco dell’inno nazionale gl’intronava sempre gli orecchi, le stonature del clarinetto gli avevano urtati i nervi e gl’impedivano il sonno. Dopo d’aver preso alla meno peggio un qualche riposo, si decise finalmente di aprire la finestra, e quello fu ristante più beato del giorno. Sentì l’aria pura e imbalsamata del paese nativo che gli sbatteva sul viso, ne riconobbe il profumo, gli parve che quegli aliti montani dissipassero la nebbia che gli offuscava la mente. Gli scomparvero come per incanto gli anni trascorsi, perdette la memoria delle lotte sanguinose, dei tumulti del parlamento, del febbrile lavoro del ministero, e li credette un sogno di malato. Difatti le cime de’ suoi monti, i casolari delle colline, le brune chiome del bosco che gli stavano davanti, non avevano punto mutato d’aspetto. Riconobbe la casa bianca sul poggio, respirò con voluttà l’esalazione del fieno recentemente reciso, guardò con affetto l’orto paterno e la vigna che portava ancora i suoi grappoli. Rimase lungamente estatico a quella finestra, contemplando quel panorama cosi eloquente al suo cuore.