che scrisse con tanta dottrina, con tanta accuratezza e con tanta fede, e che per istruirsi con sicurezza viaggiò per l’Italia tutta. Altra riflessione è da fare ancora su questo bel passo. Noi contra la prevenzione già invalsa abbiam dimostrato nel primo libro chiaramente, come Verona non fu mai Cenomana: or diremo che si conferma questa verità incontrastabilmente anche da questo luogo di Strabone, ov’esso con quello si congiunga di Tito Livio, che insegna come de’ Cenomani fu capo Brescia: poichè se Brescia era piccola città, e Verona grande, ed uguale alla metropoli degl’Insubri, quando l’una e l’altra fossero state de’ Cenomani, la grande sarebbe senza dubbio stata lor capitale, non la piccola. Nè si dica che a’ tempi d’Augusto potea forse essere scemata Brescia, e cresciuta Verona, poichè abbiam veduto fin ne’ tempi d’Annibale distinguer Silio Italico Verona tra le circostanti, e abbiam veduto insegnar Polibio che fino nel sommo fiorir dei Cenomani confine tra queste due città essendo il Chiesio, delle 40 miglia di paese che sono tra l’una e l’altra, trenta ne avea Verona, e dieci Brescia. Altro non meno evidente argomento dall’istesso confronto di Strabone e di Livio risulta; imparandosi dal secondo, come quella Republica non avea che Brescia e villaggi; poichè narra che il console Cetego per informarsi della disposizione e volontà dei Cenomani, mandò ne’ lor Vici, ed in Brescia, che della gente era capo (lib. 32: in vicos Cenomanorum, Brixiamque, quae caput gentis erat). Ecco però