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L’amorosa morte, la signora de’ vaghissimi sogni, raggiante d’immortal giovinezza, è la musa sua. Ed egli con questo antico nome saluta l’ispiratrice. Poichè il Prati è romantico a tal segno, che nemmen si curò di ripudiare l’antica musa — quella che il Manzoni ripudiò, ma che fu più forte di lui, perchè, mentre volea sopprimerla, non riuscì che a cangiarle il nome. — Il Prati fu più franco, e ruppe meglio la convenzione. Non cangiò alla musa l’antico nome, ma lo dette a una bellissima fanciulla; e questa, ch’era la musa sua, sua e non d’altri, questa sola egli amò, e sempre a lei rimase fedele. Che faceva mai s’essa portava un nome antico? era come una fresca e leggiadra giovanetta, che nella famiglia porta per un caro tradizional ricordo il nome dell’avola sua.

La poesia e l’amore della morte, il bisogno quasi d’avvezzarsi a vivere insieme col suo pensiero, d’allontanarne ogni pauroso e freddo senso, sparpagliando le vivide rose e i gigli sui prati del mesto asfodelo, camminando verso le tombe come a un talamo di delizie, non era solo una fantastica vaghezza, una simpatia di moda, diremo così, o un vezzo prediletto del poeta. No; era prima che del poeta, un sentito bisogno dei tempi. I tempi dimandavano la poesia e l’amore della morte. La patria chiamava, la patria chiedeva a drappelli, a legioni, i figli giovanetti, la speranza delle madri, il sospiro delle fidanzate, per guidarli incontro al nero fato sui campi di battaglia, dove gli aspettavano le gelide notti senz’alba, gli amari viaggi senza ritorno. E le fidanzate e le madri non potean più ripetere senza un tremito nè una lacrima, cingendo la spada ai partenti: Vi rivedremo o vincitori o morti. Non erano spartane viragini, non erano greche statue, le eroine d’Italia cristiana.