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Quella facoltà visiva strapotente, capace d’abbracciare con un giro d’occhio il poema dell’universo, facoltà propria solo de’ più grandi artefici della poesia, raggiunge qualche volta nel Prati una grandiosità di descrizione ariostesca. E certo anche sotto quest’aspetto ebbe ragione il Nencioni di scrivere, che “nessuno in Italia, dopo l’Ariosto, è nato poeta come il Prati.” In tutta la lirica moderna d’Italia, io confesso di non trovare, per esempio, una levata di strofe che mi rappresenti, no, che mi spalanchi dentro nell’anima l’ideal maravigliosa veduta del mare, come quell’inno, che dall’anima stessa del mare par levarsi inaspettatamente nel secondo canto del poema Rodolfo.

Ed io voglio citarlo, per dimostrare qual rarità di perle vere si trovino mescolate alle false, in questo poema del Rodolfo; come non poche se ne trovano e nel Conte di Riga e nell’Armando e nell’Ariberto; poemi, questi ultimi, che il poeta volle ragionare, e che perciò non gli riuscirono, e furono condannati dalla critica, non a torto, come genere falso. Ma a torto la critica trascurò di sceverare in essi dall’ibrida accozzaglia metafisica e psicologica gli squarci di lirica che vi sono sparsi, e che rivaleggiano con le più belle liriche che il Goethe ha sparse nel suo Fausto.

Ah, la critica! qualche volta è proprio quella che avrebbe il maggior bisogno d’essere criticata! E bisogna badar bene a non fidarsi di lei, quando mena troppo in fretta la sua falce fienaia. Troppe volte le accade di far fascio dell’erba e dei fiori: e quanti fiori immortali avrebber dovuto disseccare così alla rinfusa, se il buon gusto, inerudito e sincero, non avesse fatta la scelta!

Ma ecco le strofe, delle quali nessun critico del passato,