Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
34 | l’argentina e gli italiani |
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia supera Parigi di settimila e Berlino di seimila e trecento ettari. Ha edifici grandiosi, grandi boulevards, parchi, ha centoquaranta chilometri di pavimentazione in legno, un porto che è unico nel suo genere, un impianto d’acqua potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî pubblici straordinarî. L’esistenza di questa città è un fenomeno puramente americano, di quelli che sfuggono in parte alla nostra analisi.
La Buenos Aires d’oggi è sorta sull’antica città così, come un’impresa, come una speculazione ben lanciata, in forza di uno di quegli inesplicabili delirî collettivi che afferrano talvolta i popoli davanti alla prospettiva della rapida ricchezza. L’Argentina appariva il paese incantato che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità avvenire venne ipotecata in una febbre di affari, i quali non avevano altra base che delle speranze assurde. Le fonti della prosperità vennero trascurate per delle speculazioni fantastiche: l’Argentina vera fu perduta di vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano delle fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva come se l’Europa intera avesse dovuto rovesciarsi qua. I terreni aumentavano di valore fino all’incredibile. L’affarismo escogitava delle imprese favolose. Si arrivò a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni furono pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Plata è morta, e si visita come Pompei. I capitali e le braccia stranieri affluivano attratti da rimunerazioni enormi. L’oro correva a rivi. Il Rio della Plata meritava il suo nome. La disonestà trionfava. S’ipotecava per centomila lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d’onestà, di giustizia, di dignità, d’amor patrio erano travolti dalla febbre della ricchezza. I governanti arricchivano e lasciavano arricchire le loro clientele.