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146 l’argentina e gli italiani


italiani. Il granito delle grandi pareli dei bacini e dei docks viene dal Tandil, dove braccia italiane lo strappano alle colline, lo spezzano, lo sagomano, lo trasportano. Laggiù fra le lontane solitudini migliaia d’italiani, riuniti in poveri villaggi, lavorano le cave di granito che italiani hanno scoperto: e il rombo del loro lavoro echeggia per le valli deserte — quando una crisi politica o economica non li snida e non li ricaccia affamati, come nel novanta e come adesso, nella mandria immensa dei senza lavoro!

Dal ponte della nave ormeggiata l’occhio spazia sulla città, i cui mille pinnacoli, cupole, campanili si ergono sulla moltitudine dei tetti. Tutto ciò che si vede è stato fatto da braccia italiane. Il lavoro materiale italiano entra in proporzione del novantasei per cento su quanto si fa laggiù.

Nel 1855 Buenos Aires non era che una ben misera città, fangosa e sporca. Le case piccole, basse, primitive, costruite senza calce con informi mattoni e fango, non avevano altro di buono che il patio: cioè a dire che la parte migliore della casa era fuori di casa. Persino l’abitazione del dittatore Rosas, che per venti anni ha imperato sull’Argentina, non era che una misera stamberga che fino a due anni fa si poteva vedere ancora in piedi ma pencolante, come quelle vecchie case inglesi dell’epoca d’Elisabetta, in Holborn, che tanto piacevano a Dickens.

In quell’epoca circa giunse laggiù il primo architetto. Era italiano, milanese. Poi altri lo seguirono. A questi nostri compatriotti si debbono le prime costruzioni civili di Buenos Aires. Già le braccia italiane giungevano in numero sufficiente per eseguire i loro progetti. Sorsero i primi palazzi, e poi dei teatri, degli ospedali, delle scuole. Braccia italiane costruirono senza posa. Da quell’anno sono state erette più di cinquantamila case; ossia tutta la città è rinata dalle sue maceriuzze fangose. E, se non in ogni costruzione è entrata la mente