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bufera, si ode da lungi e il gaucho che lo conosce bene fugge ventre a terra per assistere al passaggio di quella fantastica emigrazione dalla maggiore distanza possibile.



Entriamo nei corrales, i grandi recinti dentro i quali si chiudono i cavalli selvaggi per gettar loro il lazo. Un bel puledro è stato afferrato col laccio alle gambe e al collo. Sei gauchos saltati di sella tentano di tenerlo fermo, tirando le corde. Il cavallo rantolante per la gola serrata s'impenna, impunta le gambe appaiate dai lacci e trascina a tratti gli uomini con un moto pauroso del collo. Il domatore, un giovane bruno i cui lineamenti tradiscono il sangue indiano, vestito nel tradizionale costume della pampa, la camiciola ricamata e il chiripà rimboccato alla cintura come la vestaglia degli arabi, si appressa cautamente sostenendo l'ampio recado, la sella gaucha. Il recado è tutto il patrimonio del gaucho. È formato da un po' di ogni cosa; vi è una coperta, un poncho, una pelle di guanaco: durante i riposi diventa letto, diventa sedile, diventa tetto. Il recado è la casa dell'uomo della prateria. Ogni cura egli pone nell'abbellirlo, nell'aggiungervi ornamenti d'argento, staffe di corno intagliato, nastri colorati, fiocchi di seta; il recado è il suo orgoglio.

Il domatore tocca con la mano carezzevole il collo dell'animale, che dà un balzo, fremendo, quasi pieno di orrore e di disgusto più che di paura; il disgusto di un sovrano prigioniero che si senta toccare da mano plebea. I lacci si tendono nello sforzo unito dei sei