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2 | l'argentina e gli italiani |
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Quando si ode a bordo l’avvertimento: «Chi non è passeggiero, a terra!» comincia un momento di strazio. Pare che soltanto allora chi parte abbia nettamente il sentimento dell’irreparabile. Si direbbe che vi fosse in ogni anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò dava coraggio.
«Chi non è passeggiero, a terra!» — ripetono delle voci indifferenti di marinai. Scoppiano i pianti fra la povera folla accampata sui ponti; si annodano abbracci lunghi, violenti, disperati; le facce lacrimanti si reclinano sulle spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e affannose s’intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna, torna!...
«A terra! A terra!» — ammoniscono crudelmente i marinai: e comincia per la passerella la dolorosa processione di chi rimane. Non sono molti. L’amaro conforto dei saluti non è per tutti. È una folla varia che si dispone lungo la banchina, con le pallide facce attente alla nave, aspettando.
Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la partenza di un emigrante per un lontano paese ha un po’ della morte. Egli muore alla sua vita consueta. Muore per i suoi, muore per il suo paese, sparisce verso l’ignoto. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la sua morte ha una speranza di risurrezione. Ma nel momento del distacco il turbine del dolore disperde ogni sogno. Egli ha l’occhio perduto e il viso desolato di chi si trova di fronte all’abisso insondabile di un’altra vita. Questa morte è peggiore della vera, dell’ultima, in ciò: che qui vi è la desolazione di chi parte aggiunta alla desolazione di chi rimane. Questi due dolori di fronte, dalla riva alla nave, si nutrono l’uno dell’altro fino alla disperazione.