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30 verso l’isonzo


soluto, improrogabile, sacro, di un dovere che va compiuto ad ogni costo finche c’è un alito di vita, è diffuso nell’esercito ed ha la profondità d’una convinzione religiosa.

Per tutto dove passo trovo degli esempi umili e magnifici di questa nobile comprensione del dovere, anche fuori dei combattimenti, nell’oscura fatica dei servizi. Ecco, in vicinanza del fronte, a Medea, sulla via polverosa passano i cucinieri di un reggimento che sono andati per l’acqua; sono sporchi, sono stanchi, non dormono che tre o quattro ore per giorno, sul far dell’alba. Uno di essi, dagli occhi febbricitanti, ha la mano destra fasciata, enorme, sollevata e tremante. Porta il secchio sulla spalla sinistra. «Come stai?» — gli domanda affettuosamente un ufficiale superiore. Il soldato, un contadino calabrese piantato sull’attenti, risponde: «La mano mi fa male ancora!». Quando si è allontanato, l’ufficiale mi spiega: «È caduto, e cadendo si è immerso la mano nell’acqua bollente; il medico gli ha ordinato di coricarsi sotto la tenda, di restare in riposo, immobile, ma lui dice che c’è troppo da fare, ed ha pregato i superiori di lasciarlo lavorare finche Dio gli dà la forza di resistere».

Poco lontano, a Viscone, ad una tappa di carreggi, passa lungo i muri del villaggio un sergente d’artiglieria zoppicante, col piede sinistro fasciato. È stato ferito e mandato alla