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26 verso l’isonzo


lunghi, ansimanti, e nelle stazioni piene d’ordine, custodite da bravi territoriali, inflessibili come la loro enorme baionetta, spesso le truppe che aspettano l’ora della partenza, durante lunghe soste al sole, cantano a squarciagola. Ogni vagone ha la sua canzone, indipendente dal vagone vicino, e il treno intero manda il più spaventoso dei cori. Quando poi il convoglio si muove, il coro si fonde in un tremendo evviva: «Evviva l’Italia!», «Vogliamo Trento e Trieste!». E i gruppi di abitanti, che non mancano mai di affollarsi alle barriere, rispondono.

I soldati salutano sempre con gioia ogni passo in avanti. Gremiscono le aperture dei furgoni — che delle fronde, dei fiori, delle bandierine adornano — e gesticolano, e ridono, e gridano, seduti alcuni sui bordi, le gambe ciondoloni, mentre dietro agli uomini, nell’oscurità interna, si profilano teste di cavalli, assonnate e gravi; e un’oscillazione di zaini, di cinturini, di giberne, di tascapani, pende dal soffitto. Sui vagoni a piattaforma i carriaggi si allineano, con le stanghe in alto come braccia levate. Sotto a grandi copertoni di tela grigia s’indovinano forme di cannoni.

Alla stazione di San Giorgio assisto all’arrivo d’un treno di feriti.

È un treno della Croce Rossa, tutto nuovo. Vestite di bianco, delle danne di un comitato