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la conquista della conca di plezzo 311


non v’è un sasso. Delle barriere di reticolati lo percorrono. Improvvisamente esso si fa ripido, si denuda, si scoscende in una specie di ripa, e la montagna sorge. Essa forma un primo ripiano, sul bordo del quale si allinea tutto un giallastro sommovimento di terra e di pietre che indica un trinceramento blindato, il fuoco del quale spazza il declivio inferiore. Più indietro, sullo stesso ripiano, altri solchi, altri scavi, tutto un colore di frana recente formato dai detriti rigettati dal lavoro; sono linee successive di difesa, appostamenti di piccole artiglierie, ridotti. Più in alto comincia il bosco, che s’infoltisce nel ripiego dei canaloni che veste la montagna di una scura pelliccia, per diradare verso la cresta nelle nudità della roccia. Questa selva nasconde delle caverne, e le caverne nascondono dei cannoni. La vetta è l’osservatorio.

Appena sparato un colpo, gli artiglieri austriaci ritirano il pezzo nella sua tana, e si nascondono con esso nel buio. Non si vede niente, la foresta non ha squarci, sembra impenetrata, impassibile. Un’osservazione attenta scopre alle volte la vampa. La risposta allora arriva immediata, esatta, ma bisogna che la granata imbocchi esattamente l’apertura di una grotta per far danni. Ciò è avvenuto; una batteria austriaca nascosta in una caverna è stata colpita in pieno. Ma quando si sente cercata l’artiglieria nemica tace. Le difficoltà di un