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il passo di montecroce | 271 |
za, verso quelle batterie protettrici, che non si
possono ridire. La loro voce è riconosciuta e
sveglia sempre esclamazioni di saluto nelle trincee.
Non le hanno mai viste, non sanno nemmeno
con precisione dove stiano, ma i soldati
le adorano, e non ce n’è uno che all’occorrenza
non si farebbe ammazzare per salvarne un pezzo.
I tiri sono seguiti con un interesse espansivo.
Un bel colpo, che vada al segno, è commentato
con espressioni di gioia. I grossi alpini
si battono allora fanciullescamente le coscie
con le palme, contenti, esclamando: — Bene!
Bene! Bravi! — E ridono.
Ma ieri le nostre batterie disdegnavano il fuoco nemico. Rispondevano appena, di tanto in tanto. Qualche grossa granata passava dal sud al nord. «Ciao, cara!» — dicevano i conducenti alzando la testa: «Buon lavoro!»
C’inerpicavamo verso il Pal Grande su di una scoscesa spalla del monte coperta da un folto bosco di abeti, girando e rigirando per le volute del sentiero, ai piedi di immani pareti rocciose dai cui bordi lontani sporgevano le tese braccia degli alberi, in oscuro intreccio. Poi la dirupata, angusta, ombrosa cavità di un canalone ci ha presi; il sentiero sempre più aspro è divenuto quasi una scala, una fantastica scala a brevi zig-zag, fiancheggiata da abeti, serrata dagli speroni di maestose muraglie basaltiche.
Un rombo lontano e sonoro, che si sarebbe