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266 dove il combattimento non ha soste


ritto di uscire dalle trincee. Si concertano, partono in cinque, in sei, armati, di notte. Spesso sono scorti o sono uditi dal nemico, la fucileria si desta, le bombe esplodono divampando fragorosamente, i proiettori si accendono e frugano la roccia. Qualche volta la scaramuccia si allarga, e non sono più cinque o sei che avanzano, sono cinquanta, sono cento, lanciati fuori da un’indignazione generosa, e la spedizione arriva sulla trincea nemica tornandone carica di trofei.

Sul Pal Grande, un giorno, uno dei nostri morti era rimasto a tre passi dai parapetti austriaci. Era un graduato che tutti adoravano. L’ufficiale in comando offrì una somma di denaro ai volontari che fossero andati a prenderlo. Gli alpini, gravi, studiarono a lungo dalle feritoie, poi scossero la testa e tacquero. L’ufficiale, un valoroso, un dio per i suoi uomini, lasciò la trincea con un gesto di sdegno. Bastò più della somma.

Era appena giunto al rifugio, quando l’ufficiale udì un tumulto di fucilate e di gridi. Si disponeva, perplesso e sorpreso, a tornare indietro, ma il tumulto diminuiva, cessava. E verso di lui, per i camminamenti coperti, scendeva un affollamento solenne di soldati. Era il funerale magnifico di un eroe. I primi portavano il cadavere, e dietro a loro ondeggiavano sulle spalle fasci di fucili e grigi scudi di acciaio, armi prese al nemico. Per riprendere