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258 dove il combattimento non ha soste


i keshitai giapponesi, gli assetati del pericolo, gli eroi dell’impossibile. L’attacco del Freikofel pareva una follia, ma bisognava studiarlo, bisognava tentarlo. Avanti le «anime perse»!

Sono tante le anime perse che si dovette fare una scelta. Occorrevano venticinque soldati, e ve n’erano cinquecento che si offrivano. Partì all’alba del 6 giugno la spedizione prodigiosa, condotta da un sergente pratico dei luoghi. Erano tutti alpigiani: guide, cacciatori di camosci, portatori, gente che si sente sicura sopra un abisso finchè trova lo spazio per incastrare la punta d’un piede e i polpastrelli di una mano.

Si vede da dove sono saliti, ma non si carpisce come siano saliti. Portavano il fucile, con la baionetta già inastata, le giberne, il tascapane pieno di viveri, erano carichi di peso. S’inerpicavano con piedi fasciati di pezze, per far meglio presa sulla roccia, e certi tratti di parete liscia, dove non era possibile salire, li superavano fissando alle sporgenze superiori delle lunghe corde alle quali si arrampicavano. Gli austriaci, che vigilavano le due spalle più accessibili del monte, non udirono niente. L’ascesa, lenta e silenziosa, era durata un’ora e mezzo.

Toccata la vetta, fra le asperità cineree dei dirupi gli assalitori concertarono rapidamente il loro piano. «Battaglione, alla baionetta!» — urlò il sergente. «Compagnia, alla baionetta!»