Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
sulle vette dell'alto agordino | 175 |
taciturni una fede triste e rassegnata, quell’istinto
della preghiera di chi vive nel pericolo.
Il monte è un eterno nemico, che lancia
valanghe e frane, che scatena bufere e tormente,
nelle quali l’uomo si sperde e rimane preso
per sempre. La montagna, come il mare, rende
gravi e devoti.
Oggi essa è sinistra sotto al cielo coperto. Le vette rocciose non sono che masse immani di tenebrore, volumi informi d’ombra violastra sui quali corre il velo delle nebbie, sfondi oscuri e indefiniti che si perdono nelle nubi. Di tanto in tanto, una macchia di sole accende un prato alto, dà vita ad un bosco, passa, scivola, si estingue in frange di vapori cinerei. Il cannone tuona lontano.
Andiamo verso delle posizioni gremite di soldati, ma si direbbe di salire in regioni deserte. Non si vede nessuno. Le carovane e le salmerie salgono ad ore fissate. Il movimento delle retrovie non si sgrana in una continuità di animazione. Qualche piccolo posto, ai tanto in tanto, qualche guardia ai ponti rustici che scavalcano il torrente, il fumo di un rancio che cuoce fra due pietre alla fiamma di legni resinosi, un battere di scure vicino ad una tabià abbandonata, il biancheggiare di una tenda fra gli abeti; poi, per ore, più niente.
Abbiamo lasciato molto lontano, laggiù nelle grandi vallate percorse dalle arterie migliori