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stribuire del pane ai più bisognosi, e tuttavia si rinviene ogni tanto qualche cadavere al piede d’un muro o sulla soglia di una moschea nell’atteggiamento di chi dorme: è qualche affamato che, preso dall’ultimo sonno, si è coricato quietamente in disparte ed è morto.

Fuori d’ogni città marocchina si agglomerano le turbe dei miserabili. La gente della campagna, come il lupo, è spinta dal bisogno verso l’abitato, per istinto; si avvicina ai luoghi dove abbonda ogni cosa. Presso alle mura delle città la Fame mette il campo e intraprende un silenzioso e timido assedio, senza altra arma che il tragico aspetto di se stessa. Ma i cittadini non vi fanno gran caso; ne hanno troppo l’abitudine; la comparsa di quelle sinistre moltitudini non è per essi che un segno di cattivo raccolto, come la discesa delle cornacchie è segno di cattivo tempo. Non vi è che una abitazione fuori della Bab El-Behar. È una villetta europea il cui isolamento fa fede della cattiva fama del luogo, e dimostra il coraggio del proprietario. Egli è italiano, il signor Guagnino, nostro agente consolare, genovese di origine, attivo commerciante al cui lavoro si deve unicamente se l’esportazione italiana occupa un posto a Laraishe.

Egli è venuto al mio campo.