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A LARAISHE.

A Laraishe avevo fatto piantare il campo, col consenso del governatore, fuori della Bab El-Behar (la Porta del Mare), sull’orlo erboso d’una ripa che domina l’Oceano. Le tende s’agitavano e palpitavano come vele di navi alla brezza della sera.

Non ero in buona compagnia. Poco discosto una tribù di arabi, che la carestia aveva scacciato dalla campagna e che la cittadinanza non voleva accogliere dentro le mura, stava accampata per vivere degli avanzi del Sole vicino — cioè delle immondizie. Una vera Corte dei Miracoli fra miserabili tane fatte di fango, di sterco e di fascine. Gli affamati si sono avvicinati a gruppi, silenziosi, piano piano, con la cautela di chi teme di essere scacciato.

Me li vedevo comparire improvvisamente avanti all’apertura della mia tenda, e sussultavo come alla vista di apparizioni funebri. Erano degli scheletri seminudi. Rimanevano immobili a guardarmi, senza chiedere nulla, con un resto di fierezza nel loro atteggiamento; ma i loro occhi erano pieni di implorazione disperata, e solo i loro occhi ringraziavano