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di Tito Lucrezio Lib. I. 17

     Umide fansi, e le medesme ancora
     Spiegate a’ rai del Sol tornano asciutte;
     Ma nè come l’umore ivi si fermi,
     Nè come fugga dal calor cacciato
     425Mai scorse alcuno: egli si sparge adunque
     In tante particelle, e sì minute,
     Ch’a poterle vedere occhio non basta.
Anzi portate per molt’anni in dito
     S’assottiglian l’anella. A goccia a goccia
     430L’acqua d’alto cadendo i sassi incava.
     L’adunco ferro del ritorto aratro
     Rompendo i campi, occultamente scema.
     Consuman per le strade i piè del volgo
     Le durissime lastre, e per lo spesso
     435Toccar di chi saluta, e di chi passa,
     Le figure di bronzo, in sulle porte
     De’ Templi sculte, la lor forma perdono.
     E ben tai cose sminuir veggiamo
     Consumate che son; ma di potere
     440Scorger quai d’ora in or minime parti
     Se ne vadan staccando, invidiosa
     La Natura ne toglie. Al fin pupilla
     Non v’ha, che scorga, ancorchè fissa, i corpi,
     Che il tempo, e la Natura appoco appoco
     445Danno alle cose, che da lor costrette
     A crescer son con certo modo e legge:
     Nè quei, che d’or’in or perde chiunque

            di Tito Lucr. Tomo XII.                                    B