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238 di Tito Lucrezio Lib. IV.

     Perchè il molto desio piacer gli annunzia.
     Quest’è Venere in noi: quindi fu tratto
     D’amore il nome, indi stillaro in prima
     Le veneree dolcezze, indi le fredde
     1505Cure i petti ingombrar. Poichè se lungi
     E’ l’oggetto, che s’ama, almen presente
     Ne sta l’effigie, e’l desiato nome
     Sempre all’orecchie si raggira intorno.
Ma fuggir ne convien l’esca d’amore,
     1510E l’immagini sue, volgendo altrove
     La mente, e del soverchio umor del corpo
     Sgravarne, ovunque n’è concesso, e mai
     Fissa non ritener d’un solo oggetto
     Nel cor la brama, e per noi stessi intanto
     1515Nutrir cure mordaci, e certo duolo.
     Conciossiachè la piaga ognor più viva
     Diventa, e co ’l nutrirla infistolisce:
     Cresce il furor di giorno in giorno, e sempre
     La miseria del cor fassi più grave,
     1520Se tu con dardi novi i primi dardi
     Prontamente a cacciar non t’apparecchi,
     Come d’asse si trae chiodo con chiodo;
     E con vagante affetto or quello, or questo
     Dolce frutto di Venere cogliendo
     1525Le fresche piaghe non risani, e volgi
     Dell’alma afflitta in altra parte i moti.
Nè da i frutti d’amor chi schiva amore