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Lib. IV. Fav. XIX. 227

     Appiattati guardava. Il vide appena,
     5Che, di grazia, gli dice, se cotanto
     Incauta m’inoltrai, tu mel condona;
     Indi, chiaro poichè tu scorgi, o Drago,
     Nulla confarsi l’oro al viver mio,
     Dimmi cortese, quale o premio, o frutto
     10Ciò ti reca, sicchè tu sempre vegli
     In tenebre? Nessuno, egli rispondi;
     Ma Giove me l’impose. Adunque nulla
     Ne prendi, o doni? È tale il mio destino.
     Se audace parlo, mel condona: irato
     15Cielo chi a te è simile, a vita trasse.
          * Tu adunque, che n’andrai ove andar’ pria
     Quanti fur di te innanzi; a che t’affanni
     Sordido, cieco, ed infelice avaro?
     Gaudio d’erede, a cui il suon di cetra,
     20E di flauto, tristezza, e angoscia arreca,
     Che ti privi di cibo, i Dei d’incenso,
     Cui de’ viveri il prezzo elice il pianto;
     E purchè a l’arca un qualche soldo aggiungasi,
     Con sordidi spergiuri il cielo stanchi:
     25E purchè Libitina non acquisti
     Tutta la spesa al funeral recidi.