La derelitta famigliola or piange
Miseramente; nè le vien conforto
Dal tardo onor che al nome tuo si rende. 480Or tu da quel romito angolo oscuro,
Gangetico Assalonne, esci, e la tua
Patetica parola ai salutari
Sbadigli i labbri e gli occhi al sonno inviti.
Dal curíoso sguardo dei profani 485Un umile pudor forse t’esclude?
Virtù di debolette alme è il pudore,
E non solito a te. Nè, se arruffata
Su le groppe rachitiche ti ondeggia
La popolosa zazzera, nemica 490Di baveri non unti e di severi
Pettini; o a mala pena entro al rapato
Abito pueril movesi il petto
Stento e gli attratti gomiti, indulgente
Men ti sarà chi l’alte doti apprezza 495E dell’oppio e di te. Proprio da sciocchi
È il dar fede al parer: tal, che all’aspetto
Sembra leone, asino è all’opre, e tanti,
Che l’improvvido volgo aquile estima,
Son, se provano il vol, men che tacchini. 500Qui non regna la plebe; e qual tu sei,
Quel che vali e che puoi san tutti a prova.
Quanti mai sparge rami all’aria immensa
Dell’umano saper l’arbore augusta
Tutti hai tu nella mente: arca infinita, 505In cui, ridotta in pillole e in pasticche,
La densa folla dell’idee si pigia.
Terra e gente non è specie o favella,
Che arcani abbia per te, cosmopolita
Camaleonte, che di tutti a un tempo 510Ritenendo, esser puoi tutti e nessuno.
Ed ecco, or con meschina ala ti aggiri