Arche seduto, in tuon lugubre intuona
L’epicedio dell’Arte! Ignaro, al certo,
Fra la plebe ei si aggira, e mai non pose 235L’orma su queste benedette rive,
Dove tanto su l’Arno arde e sfavilla
Glorioso splendor, qual mai non ebbe
Nelle trascorse età. Quante su l’orlo
D’un angusto, ritondo orcio, onde sbocchi 240Al sol d’agosto liquefatto il miele,
Con smemorato ardir giran le mosche;
E altre ronzan d’intorno impazíenti
Del ghiotto cibo, altre sparute e gravi
Strascinan le inveschiate ali pe’l vase; 245Tanti, e con simil ressa, all’Arno in giro
Fervon gl’itali genj; e qual più vivo
Del toscano Ippocrene il fonte attinge,
Quel sentirà qual siero entro ogni vena
Scorrere il sangue, e tramutata in latte 250Dolce fluír del fegato la bile.
O areopago della patria, o illustri
Apostoli dell’arte, io vi saluto;
E tu accogli il mio culto e il canto mio,
Città sacra del fior! Chè se ancor vive 255Su per l’itale carte un qualche suono
Della celeste melodia, che corre
Spontanea al labbro de le tue fanciulle;
E s’han grido finor le vereconde
Muse d’Italia, a te dobbiamo il vanto, 260A te il pregio, a te il nome. Aspre e robuste
Proli, dell’opre e delle pugne avvezze,
S’abbian Adige e Po; s’abbiano industri
Colòni e pingui campi ed auree mèssi
Le contumaci al culto arduo del bello 265Sicule piagge, ed all’ignobil remo
Sudi il Ligure audace: a voi, d’Etruria