Pagina:Loti - Pescatori d'Islanda.djvu/76


— 76 —

vasempre, gorgogliando per quel buco che non si chiudeva.

Gli avevano data la medaglia militare e il suo cuore aveva sussultato di gioia, egli però non era più il giovine di prima, dall’andatura decisa, dalla voce squillante e breve; appariva prostrato davanti alla lunga sofferenza, e alla febbre, che l’annientava. Era divenuto fanciullo colla nostalgia del paese; non parlava quasi più, rispondendo appena con una piccola voce dolce, quasi spenta. Sentirsi così malato ed essere lontano, tanto lontano, pensare che ci vogliono tanti di quei giorni per arrivare al paese! Vivrebbe egli, almeno fino a là, con le sue forze che diminuiscono? Questa nozione della spaventevole lontananza l’ossessionava incessantemente; l’opprimeva ai suoi risvegli — quando, dopo le ore di assopimento, ritrovava la sensazione angosciosa delle sue piaghe, il calore della sua febbre, ed il piccolo rumore fischiante del suo petto squarciato. Perciò aveva supplicato che l'imbarcassero, a rischio di tutto.

Era pesante a portare nella sua branda; senza volere, davano delle scosse crudeli trasportandolo.

A bordo di quel battello che partiva, lo coricarono in uno dei piccoli letti di ferro allineati all’ospedale, e ricominciò in senso inverso, la sua lunga passeggiata a traverso i mari. Solamente questa volta, invece di vivere come un uccello al vento delle coffe, giaceva prostrato tra le esalazioni di medicine, di ferite e di miserie.

Nei primi giorni, la gioia di essere in istrada, l’aveva fatto sentire meglio. Poteva tenersi sollevato sul suo letto, ed ogni tanto domandava la sua boite di marinaio, una scatola di legno bianco comprata a Paimpol, per mettere le sue cose più preziose; le lettere della nonna Yvonne, quelle di Yann e di Gaud, un quaderno dove aveva copiato delle canzoni di bordo e un libro di Confucius in cinese, sul quale aveva scritto il diario delle sue campagne.