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fondati, dei cranii che spandevano brani di cervello nell’acqua della risaia.

Essi fuggivano, toccando il suolo, appiattandosi come dei leopardi. E Silvestro li inseguiva, già ferito due volte da un colpo di lancia alla coscia e da un profondo taglio al braccio. Non sentiva niente però, non altro che l’ebbrezza di battersi, quella ebbrezza insensata che viene dalla baldanza del sangue e trasforma i semplici in martiri o in eroi.

Un Cinese, inseguito da lui, si voltò a spianare lo schioppo in una ispirazione di terrore disperato. Silvestro si fermò sorridendo, disprezzante, sublime, per farlo tirare, poi si gettò un poco verso sinistra, vedendo la direzione del colpo che stava per partire. Ma, nel movimento del grilletto la canna del fucile deviò per caso nello stesso senso.

Allora egli sentì una commozione al petto, voltò la testa verso gli altri marinai che lo seguivano, per tentare di dire loro come un vecchio soldato: «Io credo che ho quello che mi spetta». Non ne ebbe il tempo, perchè sentì subito entrare nel fianco destro qualche cosa che gli gelava il sangue in uno spasimo di morte.

Egli girò su se stesso due o tre volte, colto da una vertigine angosciosa, poi cadde, stramazzò pesantemente nel fango.


Capitolo Secondo.

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Quindici giorni dopo, come il cielo, all’avvicinarsi della pioggia, si faceva più scuro, e il caldo più pesante, Silvestro, trasportato a Hanoi dopo la battaglia, fu messo a bordo di un battello-ospedale che rientrava in Francia.

Era stato molto tempo portato su diverse barelle fermandosi in parecchie ambulanze. Avevano cercato di curarlo alla meglio; ma in quella cattiva condizione, il petto si era riempito di acqua, dal lato bucato, e l’aria entra-