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un gigante. Appena giunto fece una smorfia stringendo la punta del naso a causa dell’odor acre di salsedine. Egli oltrepassava un poco troppo le proporzioni ordinarie degli uomini; sopratutto per le sue spalle che erano diritte come una sbarra. Aveva degli occhi scuri, febbrili, dalla espressione selvaggia e superba.

Silvestro abbracciò Yann con viva tenerezza; egli era fidanzato a sua sorella e già lo considerava suo cognato. L’altro si lasciava carezzare con un’aria di leone domato, rispondendo con un sorriso buono, che scopriva i suoi denti bianchissimi. Quando Yann fu seduto, si riempirono ancora i bicchieri e si chiamò il mozzo del vascello per vuotare le pipe e riaccenderle. Per il mozzo accendere le pipe significava anche fumare. Egli era un piccolo giovanotto robusto, rubicondo, un poco cugino di tutti i marinai che erano più o meno parenti tra di loro, lo amavano e lo viziavano a bordo pur facendolo lavorare come un cane. Yann lo fece bere nel suo bicchiere e poi lo mandarono a letto.

Dopo si ricominciò a parlare del matrimonio.

— E tu Yann — domandò Silvestro — quando sposerai?

— Non hai vergogna — chiese il comandante — di non essere ancora ammogliato a ventisette anni? Che cosa penseranno di te le ragazze?

— Io sposo di notte e qualche volta di giorno — rispose Yann sdegnosamente. Egli aveva terminato da poco i suoi cinque anni di servizio militare. Come marinaio cannoniere della flotta aveva imparato a parlare il francese e ad ostentare uno scetticismo di cui forse non era convinto. Cominciò a raccontare le sue ultime nozze che, a quanto pare erano durate quindici giorni.

Fu a Nantes, con una divette. Una sera, ritornando dal mare era entrato un pochino brillo in un Alcazar. Vi era alla porta una donna che vendeva dei bouquets di fiori enormi a venti lire ciascuno. Ne aveva comperato uno senza sapere cosa fosse e, appena entrato l’aveva lan-