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— Che voi consegnate a vostra madre, — signor Yann?
— Ma sì, sempre tutto. Da noi, islandesi, questa è l'abitudine, signorina Gaud. Così, io, voi non lo crederete, non ho quasi mai danaro. La domenica è mia madre che me ne dà un poco, quando vengo a Paimpol. Per tutti è la stessa cosa. Quest’anno mio padre mi ha fatto fare questi abiti nuovi che porto, senza di che io non sarei potuto mai venire al matrimonio. Oh no! certamente non avrei potuto darvi il braccio con i miei abiti dell’anno scorso.
Per lei, abituata a vedere dei parigini, gli abiti di Yann forse non erano molto eleganti; ma la figura che si disegnava al disotto era irriprovevolmente bella e dava al ballerino un’aria di distinzione affascinante. Sorridendo egli la guardava bene negli occhi, quando le diceva qualche cosa, per vedere ciò che ne pensasse. E lo sguardo di lei restava calmo e sorridente, mentre egli raccontava tutto questo per prevenirla che non era ricco. Anche ella sorrideva guardandolo bene in faccia, rispondendo molto poco, ma ascoltandolo con tutta la sua anima, sempre più stordita e più attirata verso di lui. Che miscuglio era egli di rudezza selvaggia e di fanciullaggine carezzevole. La sua voce grave, che con gli altri era brusca e decisa, diventava, quando parlava a lei, sempre più fresca e carezzevole; per lei sola egli sapeva intonarla a un’estrema dolcezza, come una musica velata di strumenti a corde.
E che cosa strana ed inattesa, questo grande giovanotto con la sua figura disinvolta ed il suo aspetto terribile, che trattato sempre come un fanciullo dai suoi, trovasse ciò molto naturale, quantunque avesse corso per il mondo, tutte le avventure, tutti i pericoli. Ella lo paragonava con gli altri, con tre o quattro farfallini di Parigi, che l’avevano perseguitata con la loro adorazione, per il suo danaro. E questo qui le sembrava il migliore di quanti ne aveva conosciuti, e ne era pure il più bello.