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ii - elegia 267

ii

elegia

[Amante dispietata.]


     Vinto dalli amorosi empi martíri,
piú volte ho giá la mano a scriver pòrta,
come il cor viva in pianti ed in sospiri,
     donna, per farti del mio stato accorta;
ma poi, temendo non l’avessi a sdegno,5
ho dal primo pensier la man distorta.
     Cosí, mentre che dentro il foco al legno
è stato acceso, ora il desio m’ha spinto,
or m’ha paura ritenuto al segno.
     Ma piú celar non puossi, e giá dipinto10
porto il mio mal nella pallida faccia,
come chi da mal lungo è stanco e vinto,
     ch’or drento avvampa, or di fuor tutto agghiaccia;
onde convien che a maggior forza io ceda,
ché contro Amor non val difesa io faccia.15
     Aimè! che ciascun vede io esser preda
d’amor protervo, né ha, lasso! pietate;
e tu, ch’io piú vorrei, non par che ’l creda.
     Speme, soverchio amor, mia fedeltate
questo laccio amoroso hanno al cor stretto,20
e furato lor dolce libertate.
     Ben veggio il perso ben; ma, perch’io aspetto
trovar, donna gentile, in te merzede,
fa’ che di ben seguirti ho gran diletto;
     ché, s’egli è ver quel ch’altri dice o crede,25
che persa è beltá in donna sanza amore,
te ingiuriar non vorrei e la mia fede;
     perché non cerco alcun tuo disonore,
ma sol la grazia tua, e che ti piacci
o che ’l mio albergo sia drento al tuo core.30