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262 xvii - rime varie o di dubbia autenticitá

ii

Lorenzo de’ Medici, quando tornò da Napoli, a Bernardo Bellincioni.


     Un pezzo di migliaccio malavia
ed una fiera bestia ed una a prato
avevon tanto un erpice menato,
ch’egli era fuor del solco per pazzia.
     Ma se n’avvidde mona Nencia mia
e tese al sole un vaglio ben bucato:
un giudeo il vidde e funne sí crucciato,
che non vorrebbon piú geometria.
     Quell’«arri sta», che fanno i paladini,
quando vanno a Piacenza coi cestoni,
fanno impazzar quei poveri asinini.
     Perché hanno il capo vuoto, molti arpioni
armeggion per calendi e pastaccini,
e deston la mattina i dormiglioni.
E però i Calicioni
s’armon di troppo debole corazza,
ch’ogni poco di stretta poi gli ammazza.


iii

Laurentius Medices Hermellino equo, suae puellae utendum misso.


     Se, come Giove trasformossi in toro,
anch’io potessi pigliar tua figura,
Ermellin mio, sanza darti tal cura,
portar vorre’ io stesso il mio tesoro.
     Non sí di lungi, né con tal martoro,
né pria nell’onde mai con tal paura
portato arei quell’angioletta pura,
che or m’è donna, e forse poi fia alloro.
     Ma poi che cosí va, Ermellino mio,
tu solo porterai suave e piano
la preziosa salma e ’l mio disio.
     Guarda non molestar col fren sua mano:
ubbidisci colei che ubbidisch’io,
poiché sí tosto Amor vuole che amiano.