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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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desiderano e amano; e allora ha tanta forza la immaginazione, che mostra agli occhi quello che vuole, ed a me mostrava il mondo le luci, cioè gli occhi della donna mia, come se vedessi lei viva e vera. Ma, nella cittá, quando una cura e quando un’altra mi toglieva questa dolcezza, la quale veramente è grandissima. E, quando non si provassi per altra ragione, si prova per questa: che la dolcezza della immaginazione ha qualche similitudine colla vera beatitudine, cioè quella che consegue l’anima a cui è data la gloria eterna, la quale in altro modo non si fruisce che immaginando e contemplando la bontá divina. E, benché questa contemplazione sia differente assai dalla contemplazione umana, perché quella contempla il vero e questa una immaginazione vana che forma l’appetito mortale, non di meno l’una che l’altra ha qualche poco di similitudine nel mondo. E, cosí imperfetta come è questa mortale, è approvata per la prima felicitá del mondo, quando ha per obietto la vera perfezione e bontá, secondo che si può conseguire nella mortal vita. Per questo si può dire che la contemplazione di qualunque cosa non molesta abbi in sé grande dolcezza, perché ha qualche parte di similitudine colla somma dolcezza e perfetta felicitá. Bisogna nel presente sonetto presupporre che fussi composto nella cittá, perché dicendo «Qui mel toglie», ecc., come si legge nell’ultimo verso, è necessario s’intendi «qui», cioè nella cittá, presupponendo ancora qualche fresco piacere o di contemplazione o d’altro, ricevuto in luoghi alpestri e solitari, per la quale comparazione s’appetiscono le ville e si ha in odio le cittá.
— Ponete modo al pianto, occhi miei lassi:
presto quel viso angelico vedrete.
— Ecco giá lo veggiam. — Perché piangete?
perché nel petto il cor pavido stassi? —
— Miseri noi, che, se fiso mirassi,
fermando in noi le vaghe luci e liete,
il nostro bavalischio o faría priete
di noi, o converria l’alma spirassi. —
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