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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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e piene di speranza. E come si vede, in tutto questo sonetto, non si cerca altro che raffrenare e temperare il desio corrente ed ardentissimo; e, credendosi il mio pensiero dover ottenere dal sonno questa sua petizione, come avviene alla insazietá dello appetito umano, da questo primo desiderio trascorre il desiderare ancora, o vero perpetuamente, queste felicitá dormendo, o qualche volta remosso il sonno: perché dice che, consentendo il sonno, e volendo esaudire i prieghi miei di rappresentarmi la donna mia bella e piatosa, ecc., desidererebbe dormire eternalmente sanza destarsi mai, presupponendo sempre vedere la donna mia colle giá dette condizioni. E se pure questo fussi impossibile, almeno non sieno questi sonni vani e bugiardi, come quelli che passano per la porta eburnea. Trovasi scritto fabulosamente per li antichi poeti essere appresso gl’inferi due porte, che l’una è eburnea, cioè d’avorio, l’altra è di legno di corno, e che tutti i sogni, i quali pervengono alla umana immaginazione nel sonno, passano per queste due porte, con questa distinzione, che i sogni veri passano per la porta del corno, quelli che sono falsi e vani per la porta d’avorio. E però, pregando io che questi sogni lieti non passino per la porta eburnea, tanto è come pregare che quelli sogni non sieno falsi, ma verificati, ed abbino quello felice effetto che sogliono avere quelli della porta cornea.
Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori,
le piazze, i templi e gli edifizi magni,
le delizie e il tesor, quale accompagni
mille duri pensier, mille dolori.
Un verde praticel pien di be’ fiori,
un rivo che l’erbetta intorno bagni,
un augelletto che d’amor si lagni
acqueta molto meglio i nostri ardori;
l’ombrose selve, i sassi e gli alti monti,
gli antri oscuri e le fere fuggitive,
qualche leggiadra ninfa paurosa:
quivi vegg’io con pensier vaghi e pronti
le belle luci come fussin vive,
qui me le toglie or una or altra cosa.
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