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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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soavi, perché adempierei quello desiderio che avevo, di vedere, udire e toccare la donna mia. E questo potevo sicuramente promettere, perché comunemente ne’ sonni si veggono quelle cose che piú s’immaginono e desiderono nella vigilia. Negandomi adunque questo bene Amore, che almanco dormendo io fussi felice, veramente lo potevo chiamare invidioso, poiché d’una falsa e brevissima dolcezza non consentiva satisfarmi.
O sonno placidissimo, omai vieni
all’affannato cor che ti disia:
serra il perenne fonte a’ pianti mia,
o dolce oblivion, che tanto peni.
Vieni, unica quiete, quale affreni
sola il corso al desire, e in compagnia
mena la donna mia benigna e pia
cogli occhi di pietá dolci e sereni.
Mostrami il lieto viso, ove giá fêrno
le Grazie la lor sede, e il disio queti
un pio sembiante, una parola accorta.
Se cosí me la mostri, o sia eterno
il nostro sonno, o questi sonni lieti,
lasso, non passin per l’eburnea porta.
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Abbiamo nel precedente sonetto verificato che li pensieri della notte sono piú intensi che quelli del giorno, e quando sono maligni, molto piú molesti. Ma, ancora che generalmente cosí sia, li pensieri amorosi piú che gli altri, secondo la mia oppinione, prendono la notte forza, e sono molto piú insopportabili quando sono molesti; né possono essere altro che molesti, presupponendo la privazione della cosa amata, perché tutti i mali che possono cadere negli uomini, non sono altro che desiderio di bene, del quale altri è privato. Perché chi sente alcuno dolore o torsione nel corpo, desidera la sanitá di che è privato; chi è in carcere, la libertá; chi è deposto di qualche dignitá, tornare in buona condizione; chi ha perduto alcuna facultá e sostanza, la ricchezza. E di questo veramente si può concludere che chi fussi sanza desiderio, non sarebbe sottoposto ad alcuno caso; e chi piú desidera, sente maggiore
Lorenzo il Magnifico, Opere - i. |
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