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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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della vita mia potea stare per qualche altro tempo, ancora che brieve, cosí sanza vederla. Di che essa accorgendosi, non per visibili segni, ché questo era impossibile, ma per esserli noto l’amor grande che io li portavo, e provando forse in sé medesima quanto fussi difficile e insopportabile la privazione degli occhi suoi agli occhi miei, né potendo a questo per allora rimediare, soccorse alla mia afflizione in quel modo che per allora si poteva. Dilettavasi di natura, come di molte altre cose gentili, ancora di tenere in casa in alcuni vasi bellissimi certe piante di viole, alle quali lei medesima soccorreva e d’acqua per li eccessivi caldi, e d’ogni altra cosa necessaria al nutrimento loro. Elesse adunque tre viole tra molte altre che ne aveva; quelle alle quali o la natura vòlse meglio, per averle produtte piú belle che l’altre, o la fortuna che prima all’altre le fece venire a quella candidissima mano. Le quali viole cosí còlte mi mandò a donare; ché veramente da lei in fuora nessuna cosa poteva meglio mitigare tanto mio dolore. Parla adunque il presente sonetto alle sopradette tre viole, le quali essendo per loro medesime di meravigliosa bellezza, ed essendo dono della donna mia e còlte da quella mano candidissima, ragionevole cosa era che mi paressino molto piú belle che non suole produrre la natura. E per questo convenientemente si domanda pel presente sonetto, come si suole fare di tutte le cose maravigliose, della cagione di tanta eccellenzia. E perché il presente sonetto per sé pare assai chiaro, brievemente diremo che nel domandare della cagione perché erono sí belle, si tocca tutti i mezzi per li quali la natura produce le piante, li arbusti e l’erbe e i fiori. E perché tutte queste cagioni insieme non parevono ancora sufficienti alla nuova bellezza, al colore, alla forma e all’odore di quelle bene avventurate viole, bisognava che qualche nuova cagione ed estraordinaria potenzia le avessi produtte; ed impossibile era intendere qual cagion fussi, se non a chi avessi in altre cose veduto esperienzia d’una simile virtú e potenzia. Avendo io adunque in me provato la virtú e forza di quella candidissima mano, che, secondo il precedente sonetto, di vile e durissimo aveva fatto il mio cuore gentile, potevo credere ed affermare, quella