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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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sempre fanno il pericolo dell’infermo assai maggiore che egli non è, mettendo spesse volte dubbio di morte in quelli, nelli quali la salute quasi manifesta si vede: perché, sopravenendo pure la morte, la colpa sia piú tosto della natura che della cura; venendo la salute, la cura ed opera si mostri tanto piú efficace. E però brevemente diremo: la persecuzione essere suta gravissima, perché li persecutori erano uomini potentissimi, di grande autoritá ed ingegno, e in disposizione e proposito fermo della mia intera ruina e desolazione, come mostra l’aver tentato tutte le vie possibili a nuocere ad uno. Io, contro a chi venivano queste cose, ero giovane privato e senza alcun consiglio o aiuto, se non quello che dí per dí la divina benignitá e clemenzia mi ministrava. Ero ridotto a quello che, essendo ad un medesimo tempo nell’anima con escomunicazione, nelle facultá con rapine, nello Stato con diversi ingegni, nella famiglia e figliuoli con nuovo trattato e macchinazioni, nella vita con frequenti insidie perseguitato, mi saria suto non piccola grazia la morte, molto minor male al mio appetito che alcuno di quelli altri. Essendo adunque in questa oscuritá di fortuna posto tra tante tenebre, qualche volta pure luceva l’amoroso raggio, talora gli occhi, talora il pensiero della donna mia; la quale dolcezza e refriggerio traeva la vita mia delle mani della morte, ancora che la fortuna non s’accorgesse di questo mio refriggerio, perché non discerneva bene gli amorosi sospiri da quelli che procedevano da lei. E però dico che, quando Amore mescolava alcuno de’ suoi sospiri tra quelli che mi dava la mia avversa fortuna e dura sorte, gli amorosi addolcivono e mitigavono quelli altri e riconfortavono il cuore. E se avveniva qualche volta che vedessi il viso della donna mia, come altre volte aveva estorto delle mani avare di morte gli spiriti e forze mie, al presente ancora difendeva contro alla morte l’anima mia. Ed «estorta» non vuol dire altro che una cosa che è tolta ad uno a suo dispetto. E la morte è veramente avara, perché maggiore avarizia non può essere che di colui, il quale vuole il tutto per sé, come la morte vuole ogni mortal cosa. Subiunge poi che, veggendo la fortuna inimica ed invidiosa d’ogni mio bene, quelli sospiri