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ii - comento sopra alcuni de’ suoi sonetti |
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E, pensando quanto per questo fussi fatta gentile la morte, credevo gli dèi immortali dover mutare sorte, ed ancora loro voler gustare la gentilezza della morte. E, se questo era, io, per mia natura desiderando solamente dolore e non gustare alcuna cosa dolce, per piú dolore eleggevo seguitare questi anni della vita, acciò che il mio dolore fussi piú diuturno e che gli occhi potessino piú tempo piangere e il cuore piú lungamente sospirare l’occaso, cioè la morte del mio sole, e gli occhi privati della loro dolcissima visione e il cuore d’ogni sua speranza e conforto, piangendo e sospirando in compagnia d’Amore, delle Grazie e delle muse, a’ quali è cosí conveniente il pianto ed il dolore come agli occhi e al cuor mio. Perché, come gli occhi e il cuore hanno perduto quel fine al quale da Amore erano suti ordinati e destinati, cosí Amore debbe ancora lui piangere, perché aveva posto l’imperio e fine suo negli occhi di costei, e le Grazie tutti i doni e virtú nella sua bellezza, le muse la gloria del loro coro in cantare le sue degnissime laudi. Adunque convenientemente il pianto a tutti quelli conviene, e chi non piangesse con quelli, bisogna sia uomo al tutto sanza parte o d’amore o di grazia, o perché ciascuno debba piangere, alcuni per non essere, altri per non parere almeno ribelli da tanta gentilezza, questi affetti arei voluto esprimere nel presente sonetto:
Di vita il dolce lume fuggirei
a quella vita, ch’altri «morte» appella;
ma morte è sí gentile oggi e sí bella,
ch’io credo che morir vorran gli dèi.
Morte è gentil, poich’è stata in colei
ch’è or del ciel la piú lucente stella;
io, che gustar non vo’ dolce, poich’ella
è morta, seguirò quest’anni rei.
Piangeran sempre gli occhi, e ’l tristo core
sospirerá del suo bel sol l’occaso,
lor di lui privi, e ’l cor d’ogni sua speme.
Piangerá meco dolcemente Amore,
le Grazie e le sorelle di Parnaso;
e chi non piangerá con questi insieme?
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