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226 | iii - rime |
ci
[Invoca la sua donna ne’ luoghi giá da lei allietati con la sua presenza.]
Perché non è co’ miei pensieri insieme
qui la mia vita e ’l caro signor mio
alla dolce ombra e sopra questo rio,
che co’ miei pianti si lamenta e geme?
Perché quest’erba il gentil piè non preme?
Perché non ode il mio lamento rio,
e i sospir che son mossi dal disio,
che accese in noi la troppo acerba speme?
Forse quella pietá, che mi promisse
Amor giá tanto e mi promette ancora
(che col suo strale in mezzo il cor lo scrisse)
verrebbe innanzi alla mia ultim’ora:
se ’l dolce mio lamento ella sentisse,
pietá bella faria chi m’innamora.
cii
[Non sa vivere lontano dal suo bene.]
Lasso! ogni loco lieto al cor m’adduce
mille amari sospir, duri pensieri:
perché non pare io possa, sappi o speri
viver lieto lontan dalla mia luce.
Ma per piú quietarsi mi conduce
l’alma in oscuri boschi, alpestri e féri,
fuggendo l’orme e i calcati sentieri:
questo talora a consolar la induce.
Cosí tra gli arbuscei mi sto soletto,
né mai men sol, ché ho meco in compagnia
mille pensier d’amor soavi e degni.
Quivi di dolci lacrime il mio petto
bagno, e nutrisco il cor che non desia
se non che morte o miglior tempo vegni.