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194 | iii - rime |
li
Sonetto fatto per alcuni poeticuli che dicevano Bartolomeo Coglioni dovea fare gran cose che in fine si risolverono in fumo.
L’impio Furor nel gran tempio di Giano
orrido freme, sanguinoso e tinto:
con mille nodi relegato e vinto,
cerca disciôrsi l’una e l’altra mano.
E certamente e’ s’affatica invano,
perché chi s’ha per lui la spada cinto,
giá tante volte è superato e vinto,
che s’egli è vil, parer non vorrá insano.
Dunque resterá pur arido e secco,
quanto per lui Parnaso e ’l sacro fonte,
né per ciò vincerassi il verde alloro.
Conoscesi oramai la voce d’Eco,
né il curro piú domanderá Fetonte,
ma fia quel della fata e del tesoro.
lii
Sonetto fatto per il duca di Calavria, quando la S. andò al Bagno.
— Tu eri poco innanzi sí felice,
or se’ privata d’ogni tuo onore,
o patria nominata dal bel fiore:
qual fato tanto bene or ti disdice?
— Lassa, che chi mi fa tanto infelice
mantenne sempre nel mio cerchio Amore.
Or s’è partita, e con lei fugge e muore
ogni ben, né star lieta piú mi lice.
Cosí sempre sarò, fin che Fortuna
che tolto ha il mio tesor, non mel ritorni,
e mi rimetta al mio stato primiero.
Ogni bene, ogni onor posto ho in quest’una:
lei può far lieti e tristi i nostri giorni,
né noi senz’essa esser felici spero. —