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146 | iii - rime |
ii
[S’invaghí della sua donna in primavera.]
Era nel tempo bel, quando Titano
dell’annual fatica il terzo avea
giá fatto, e co’ suoi raggi un po’ pugnea
d’un tal calor, ch’ancor non è villano;
vedeasi verde ciascun monte e piano,
e ogni prato pe’ fiori rilucea,
ogni arbuscel sue fronde ancor tenea,
e piange Filomena e duolsi invano;
quand’io, che pria temuto non avria,
se Ercole tornato fussi in vita,
fu’ preso d’un leggiadro e bello sguardo.
Facile e dolce all’entrar fu la via;
or non ha questo laberinto uscita,
e sono in loco dove sempre io ardo.
iii
[«Ben guardi ogn’uom pria che sia mosso».]
Giá sette volte ha Titan circuíto
nostro emispero e nostra grave mole:
per me in terra non è stato sole,
per me luce o splendor fuor non è uscito.
Ond’è ch’ogni mio gaudio è convertito
in pianto oscuro, e, quel che piú mi duole,
veder Amor che ne’ princípi suole
parer placato, ognor piú incrudelito.
Tristo principio è questo al nostro amore,
e giá mi pento della prima impresa,
ma or, quando aiutar non me ne posso;
ch’io sento arder la face a mezzo il core,
e oramai troppo è questa ésca accesa.
Dunque, ben guardi ogn’uom pria che sia mosso.