74. Ma sta’ in orecchi, chè mi par ch’e’ suoni
Il nostro tabellaccio1 del Senato,
Sicchè e’ mi fa mestier ch’io t’abbandoni,
Perocch’io non voglio essere appuntato2.
A veder ci restavano i lioni,
Ma non posso venir, ch’io son chiamato:
Ed ecco appunto i diavoli co’ lucchi3;
Però lascia ch’io corra e m’imbacucchi. 75. Dice la maga: vo’ venire anch’io
Perch’il veder più altro non m’importa,
Ed in questa città così a bacío4,
A dirla, mi par d’esser mezza morta.
Voglio trattar col re d’un fatto mio,
Ed andarmene poi per la più corta.
Ed ei le dice in burla: se tu parti,
Va’ via5 in un’ora, e torna poi in tre quarti. 76. Tu vuoi, gli rispos’ella, sempre il chiasso.
Nel consiglio così ne va con esso,
Ove ciascun l’onora e dàlle il passo,
Sbirciandola un po’ meglio e più da presso.
Ella baciando il manto a Satanasso,
Lo prega ad osservar quanto ha promesso;
Ei gliel conferma, e perchè stia sicura,
Per la palude Stige glielo giura.
↑St. 74. Tabellaccio. Strumento di legno con battagli a maniglia che si suona in luogo di campana. (Nota transclusa da pagina 282)
↑Appuntato. Notato nel libro ove si segna chi manca alle adunanze, per fargli poi pagare una multa. (Nota transclusa da pagina 282)
↑Lucco. Veste de’ magistrati. (Nota transclusa da pagina 282)
↑St. 75. A bacío. A tramontana, All’uggia. (Nota transclusa da pagina 282)
↑Va’ viaecc. Queste parole danno un senso assai diverso, se si costruiscono così: Va’ via ora in una, e torna (divisa) in tre quarti. (Nota transclusa da pagina 282)