20. Mutar devo mestier, se avvien ch’io muoia,
Di soldato cioè nel ciabattino;
Perocchè mi convien tirar le cuoia1,
Per gir con esse a rincalzare il pino.
Un’altra cosa ancor mi dà gran noia:
Ed è, che sotto son come un cammino;
E che innanzi a Minòs e agli altri giudici
Rappresentar mi debba co’ piè sudici. 21. Ma ecco omai l’ora fatale è giunta,
Ch’io lasci il mio terrestre cordovano2;
Già già la Morte corre, che par unta,
Verso di me colla gran falce in mano;
Spinge ella il ferro nel bel sen di punta3,
Ond’io mancar mi sento a mano a mano;
Però lo spirto e il corpo in un fardello
Tiro fuor della vita e vo all’avello. 22. Ormai di vita son uscito, e pure
Non trovo al mio penar quiete e conforto.
O cielo, o mondo, o Giove, o creature,
Dite, se udiste mai così gran torto?
Se Morte è fin di tutte le sciagure,
Come allupar4 mi sento, ancorchè morto?
E come, dove ognuno esce di guai,
Mi s’aguzza il mulino piucchè mai5?
↑St. 20. Tirar le cuoia. ecc. Morire, ed esser sotterrato sotto a un pino; per un albero qualunque. (Nota transclusa da pagina 201)
↑St. 21. Cordovano è una sorta di pelle. (Nota transclusa da pagina 201)
↑Spingeecc. Questo e il primo verso della Stanza sono del Tasso, là dove ci descrive la pietosa morte di Clorinda. (Nota transclusa da pagina 201)
↑St. 22. Allupare. Avere una fame da lupi. (Nota transclusa da pagina 201)
↑Mi s'aguzzaecc. Mi cresce la fame, quasi mi si aguzzassero le macini del cibo, i denti. (Nota transclusa da pagina 201)