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— La mamma e io, rispose il babbo. Ti avevamo messo intorno al capino un cercine di velluto ben imbottito, affinchè, se cadevi, tu non ti fossi fatta male: poi ti tenevamo nel cestino o ti sorreggevamo sotto le ascelle, per guidare i tuoi primi passi: ti portavamo tutti i giorni nel giardino, sul praticello dirimpetto alla casa, e là ci mettevamo di faccia l’uno all’altro e stendevamo le braccia a te, che lasciavamo sola, nel mezzo: se facevi tanto d’inciampare in un sasso, ci sentivamo rimescolare il sangue: quando poi giungevi sana e salva nelle nostre braccia, allora erano risate, battimani, tripudi.

— Cari! Io non mi sarei mai immaginata d’avervi dato tanto da fare. E chi m’ha insegnato a parlare?

— Noi, sempre noi, rispose la mamma. Ti pigliavo sulle ginocchia e ti facevo ripetere i nomi del babbo, mamma, finchè non eri in grado di dirli bene da te. E da quelle parole facili, siamo andati via via alle più difficili. Poi ti abbiamo insegnato a leggere.

— Di questo me ne ricordo benone. La mamma diceva una parola: per esempio, ago. Mi faceva distinguere il suono delle vocali, eppoi me le scriveva sulle tavolette o me le faceva cercare nel libro. E quando le avevo trovate, mi regalava un santino, un grappolo d’uva o un balocco.