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ne’ piaceri de’ sensi; e per il morale, quella confusione e quella inquietudine, la qual prova del continovo in questa vita presente chiunche vive servo e schiavo delle passioni e de gli appetiti suoi sensitivi, non essendo mai, come scrive il divin Boezio, i vizii senza dolore e senza pene. Nel qual modo hanno ancora inteso l’Inferno gran parte di quei gentili che ne hanno scritto; non volendo significare altro per quello Avoltoio, il quale ei dicono che divora continovamente il cuore a Tizio, che quel rimorse della coscienza che punge e stimola il giorno e la notte il cuore a’ peccatori; per la fatica che durano indarno le Belide per empiere quei lor vasi senza fondo, che il vano e fallace studio di coloro, i quali cercan di saziare il loro appetito nelle cose e ne’ beni del mondo; e l’intollerabil sete e fame di Tantalo, posto in mezzo delle acque e de’ pomi, che si discostano sempre tanto da lui, quanto egli si appressa a loro, che la scelerata fame de l’oro, la qual costringe gli umani petti, come scrive il Poeta mantovano, a fare ogni brutta e nefanda cosa; e così ancor similmente l’altre pene. E il simile fa ancora il poeta nostro in questo suo Inferno morale, accomodando tanto ben le pene a le colpe, e ponendo sempre innanzi a gli occhi altrui la propria e vera essenzia, e i diversi e varii accidenti di ciascun peccato, ch’egli ha superato (come osserva diligentissimamente Benvenuto da Imola) di gran lunga tutti gli altri che hanno mai scritto di tali materie.

La seconda vita, chiamata da il Filosofo civile, e che ha per fine l’onore, in quel proprio modo che ha la voluttuosa il diletto, è quella la quale si esercita nelle virtù morali, mediante le quali cercano gli amatori di tal vita, posponendo in tutte le azioni loro l’util propio e particulare al comune e a l’universale, di esser reputati di maggior grado e maggior degnità che gli altri in questa vita, ed essere onorati, e loro e le lor memorie, e con gli scritti e con istatue e altre cose publiche nell’altra. E in questa vita dice Donato Acciuaiuoli, che regna e domina tanto la ragione, ch’ella raffrena e modera di tal sorte l’appetito, ch’ei non tira e non svolge mai gli uomini a operare cosa alcuna, che non sia degna di lode, e che non si convenga a creatura ragionevole. Per il che dimostra il poeta