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della crusca xxxv

nome vostro, o valorosi e illustri Accademici; due nomi indissolubilmente uniti per tre secoli di amorevole culto e di bene spese fatiche. E se non fosse ardire soverchio, vorrei che ascoltaste un mio voto, e che gli faceste la benigna accoglienza, la quale al cospetto vostro già trovarono questi volumi. Come Omero fu il più gran poeta del gentilesimo, così Dante fu il più gran poeta della cristianità. E da ciò procede, secondo che io penso, la universale estimazione in che Dante è venuto, non solamente in Italia, ma in tutta Europa, e nelle Americhe, e in ogni altra parte del mondo, dovunque è penetrata luce di civiltà e di scienza. Ond’egli si estolle al di sopra di ogni poeta dell’età moderna, come la piramide di Cheope sopra le altre della valle Niliaca; e alla sua fama non si può trovar degno riscontro, se non in Grecia e nei tempi che precedettero l’êra volgare. E non pure nel continente Europeo, ma oltre all’Atlantico, si son formate e fioriscono Società Dantesche; le quali non hanno altro intento, che di onorare l’altissimo poeta, e di propagarne lo studio e la venerazione. Ma per una singolarità, della quale non saprei se altra sia più deplorevole, di tali società non una è ancor sorta in Italia. Non sembra a voi, illustri Accademici, che a tale mancanza convenga riparare? Per me credo che altri non vi potrebbe riparare meglio e più degnamente di voi, che sempre aveste Dante in cima de’ vostri pensieri; che in lui principalmente cercaste il fiore della buona favella, di cui siete sindacatori e custodi; che del suo poema procuraste due edizioni, prugandolo di molti errori che vi erano trascorsi; e che siete, per quanto io sappia, l’unico sodalizio letterato, che di tanto gli sia stato cortese. Nè altrove dovrebbe questa Società italiana iniziarsi, che nella vostra Firenze, madre d’ogni coltura e gentilezza, e patria del poeta; la quale tanto ora se ne gloria, quanto una volta