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della crusca xxxiii

lamente di tre lo abbiamo. Non di meno anche questo poco basta a dimostrare che Dante non ha creduto stoltezza lo scrivere un libro per dichiararne un altro, il quale non di secoli ma di pochi anni lo precedeva, ed era pure opera sua. Nè solamente egli scrisse un tal libro dichiarativo; ma lo scrisse in modo che la interpretazioni riuscì di mole a più doppii maggiore, che non fossero le rime interpretate. Vengono oltre a ciò i libri del Convito a darci un’idea, e un esempio assai notabile, del come credeva Dante che si avessero a commentare i suoi versi, e del come avrebbe egli stesso commentata la Commedia, se gli fosse bastata la vita, e vi si fosse voluto accingere. Non mi sembra dunque di andare lungi dal vero, se affermo, nessuno esser miglior interprete di uno scritto qualsiasi, che il suo autore; e per conseguenze nessun criterio poter essere più sicuro a giudicare della bontà di un commento Dantesco, che il confronto suo coi commenti lasciatici dal medesimo Dante.

E se questo criterio non falla, io posso anche affermare che nessun commento della Divina Commedia può mettersi innanzi a questo del Gelli. Imperocchè di quanti io ne ho veduti niuno ve n’ha, che più di questo si approssimi e si ragguagli ai libri del Convito; ai quali anche Cesare Balbo diceva doversi costantemente e principalmente attendere da chiunque si ponga all’ardua impresa di esporre la Commedia. Le Letture del Gelli e i libri del Convito si rassomigliano prima di tutto nel dettato e nello stile; poichè il Gelli col lungo studio aveva questi libri talmente fatti suoi, che la prosa di Dante, ottima fra le buone, e la prosa sua paiono avere un solo impasto e un solo colorito. Più ancora si rassomigliano nelle forme del ragionare e del distinguere i varii sensi, letterale, allegorico, morale e anagogico; come si rassomigliano nelle intramesse di alta filosofia, nella ricerca