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viii alla r. accademia

Cicerone e di Cesare; ma espressamente dichiara che questa lode non ad altri si conveniva che ai veri e nobili cittadini di Firenze, «i quali per la loro grandezza hanno avuto il più del tempo a trattare di cose gravi, e a mescolarsi poco col volgo; e massimamente quando essi parlatori hanno atteso alle lettere, esercitandosi negli studj.» E anche più chiaramente nelle presenti Lettere (Lett. V, lez. 3) dice che quando s’ha a imparare e pigliare una lingua, s’ha a imparare e pigliare «da quelli che la sanno e la parlan bene, che sono i primi e più nobili di quella patria della quale ella è, e non da’ plebei, che hanno una lingua bassa o vile, e da non farsene conto alcuno.» Ma posto ciò, mi sia lecito domandare, se e quale diversità corre, sulle labbra e sotto la penna di coloro che la sanno e parlano e scrivono bene, tra la lingua che si parla e scrive a Firenze, e la lingua che si parla e scrive a Napoli o a Milano; ossia, che torna allo stesso, tra il volgare illustre che piaceva a Dante, e il parlar fiorentino che piaceva a Giovan Batista Gelli. La qual dottrina del volgare illustre o del nobile fiorentino fu riepilogata con gran brevità e non minore efficacia da Giuseppe Tebaldi là dove notò che Dante, nato fiorentino, scrisse italiano, al modo medesimo che Omero aveva saputo farsi non ionio, ma greco scrittore.

Per me credo che fosse nel vero il mio ottimo e da tutti compianto amico Quintino Sella; il quale diceva che la lingua e nazionalità sono due concetti che non si possono vicendevolmente disgiungere, poichè non potrà mai dirsi che appartengano alla medesima nazione due popoli dai quali si parli e si scriva una lingua diversa. Varii certamente sono i modi e le forme, con cui ciascuna lingua si estrinseca nelle varie parti del paese, e nei varii ordini delle persone; ma questa pluralità di dialetti e di vernacoli è condizione comune