critico sul difetto che si reputa di scorgere nel soggetto dell’Alceste. Si trovano ridicole e bizzarre le tradizioni sulla divinità, che aveva prescritto non potersi ricomprare la vita d’Adméto che con quella di altra persona a lui strettamente congiunta. Ma la religione de’ Greci non offre essa un tessuto quasi continuo di simili bizzarrie? Non per questo i più valenti tragici moderni abbandonarono simili soggetti; sembra anzi che sia questo stato il terreno prediletto, su cui lavorarono i loro capi d’opera. Cornelio, Racine, Voltaire, Crebillon e cent’altri offrono di ciò la dimostrazione. Ma lasciando a parte le prove di autorità, che il nostro critico potrebbe non ammettere, si può forse ricusare la giustificazione d’Euripide stesso? La sua tragedia rappresentar dovevasi in faccia al popolo ateniese, il quale ammetteva la tradizione della volontà imperiosa del destino, e la sua religione gl’imponeva questa credenza. E lo stesso Alfieri avrebbe potuto rispondere al censore: è ben vero che la mia Alceste non dev’essere rappresentata sul teatro d’Atene, ma al popolo italiano. Questi però sa che lo