Pagina:Lettere autografe Colombo.djvu/58

38 cristoforo

scorrendo tutte le sue lettere, altro indizio che ricordasse il reggimento popolare fuorchè quell’infausto proverbio chi serve el comun non serve nessun, e in queste parole dette pensatamente da un tal uomo, mi parve di leggere la sentenza di morte delle repubbliche italiane.

Nè qui posso lasciar di riflettere che le stesse qualità, per cui fu grandissimo Colombo, assai volte gli nuocquero: il che dico volentieri a persuadere che non v’ha uomo, per quanto miracoloso, il quale non porti seco nella sua stessa forza un germe di debolezza, nelle sue virtù medesime un pericolo ed un principio d’illusione. Quella volontà forte, imperatoria, inflessibile, che vittoriosa ad ogni ostacolo guidò Colombo nel suo primo viaggio di scoperta, lo cacciò poscia quasi sempre contro insormontabili ostacoli. Due volte spinto dal vento propizio verso il Messico, e invitato dalla fortuna a prevenire Cortez, ed a salvare forse dall’estremo eccidio la civiltà messicana, e la Spagna da un’incancellabile infamia, ei non volle dichinare una linea della via che s’era predesignata, e perde l’occasione. Altra volta cercando uno stretto lunghesso la terra ferma, si ostinò d’incontro spiaggia pericolose, lottò 90 giorni col mare, soffrì inuditi travagli, per 10 mesi durando sempre nel fermato proposito, da cui non lo stornarono gli uragani fino allora non esperimentati, e la novità dei luoghi e la ferocia degli abitanti e l’inutilità dei suoi sforzi; nè mai diè volta finchè quasi non gli si disfecero le navi rose dalle brume e scommesse da tante procelle. Fu allora che trattosi a stento sul lido di Giammaica, fra i selvaggi insospettiti, e i suoi marinai tumultuanti e ribelli, uscì in quel sublime lamento, che in vari modi espresso, suona sulla bocca di tutti i genii quasi a protestare contro la disarmonia degli umani destini.