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D’ISABELLA ANDREINI. 30

che dire, ch’ad ogn’uno è chiaro, sicom’è palese, che l’affanno, che si tace maggiormente affligge: dunque considerate Signora mia, qual tormento io patisca tacendo. Io ben propongo quando vi son lontano, di voler con parole ordinate, raccontarvi le mie passioni: ma non sì tosto comparisco alla presenza vostra, ch’io divento mutolo. Io non dirò come dicono molti, cioè, che noi habbiamo una stella, che ci guida, la quale o mette freno alle nostre attioni, o v’adopra lo sprone, ponendo termine limitato a’ nostri giorni, poiche voi sola siete la mia stella e prospera, & avversa. Voi quella siete, che mi sprona, e m’arresta, voi siete la mia vita, e la mia morte, senza la quale io non posso, e non voglio operar cosa alcuna; e veramente, ch’io con ogni termine di ragione, mia stella vi chiamo, perche oltre, che potete in me quello, che vi piace, voi non siete punto dissimile dalla natura delle stelle del Cielo, anzi siete simile affatto, così nello splendore, come ne gli effetti, e che sia vero. Sicome le stelle (come vuole chi è in credito di scienza) si nutriscono de i vapori della Terra, e poscia in noi la virtù, e la forza loro infondono, così voi mia lucidissima stella, vi pascete delle mie lagrime, e de’ miei sospiri, e col vostro divin potere, in me ardentissime fiamme accendete; ma quando voi amorosa mia stella, impoverite questi occhi del vostro lume, non interviene à me, come à gli altri mortali, che dopò lo sparir delle stelle, godono il giorno, attesoche dopò, che à me sparisce la desiata vostra luce, io mi rimango in oscurissime tenebre, nè veggo giorno,


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